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Croazia&Serbia: il nazionalismo ed il futuro

Quando gli Stati Uniti d’America e l’Unione Europea hanno iniziato a chiamare i territori dell’ex-Jugoslavia con il termine di Balcani Occidentali nei primi anni 2000, una delle motivazioni era identificare una cesura tra il passato di conflitti e violenza ed un futuro pacifico.

Tuttavia, il 2017 si avvia ad una conclusione che pone l’accento sulla trasformazione incompleta dell’idenitità soprattutto di Croazia e Serbia, che, seppur abbiano compiuto dei passi avanti fondamentali, sembrano non voler rinunciare a ricorrere ad una certa intransigenza politica.

Per avere una controprova, si analizzino le reazioni a quanto concluso dall’ICTY, che giovedì ha celebrato l’imminente chiusura: la Corte ha chiaramente stabilito, nei suoi quasi venticinque anni di attività, i caratteri somatici del conflitto seguito alla dissoluzione della Jugoslavia, con attenzione particolare per i fatti che hanno interessato la Bosnia.

La ricostruzione ha puntualmente ricondotto le responsabilità dei governi di Zagabria e Belgrado del finanziamento e mantenimento alle forze armate nazionaliste attive sul terreno, ossia l’HVO e la VRS, le quali erano, chiaramente, appendici dei suddetti governi di cui perseguivano gli obiettivi. La presenza delle firme dei due presidenti, Tudjman e Milosevic, sugli accordi di Dayton, vicino ad Izetbegovic, confermano questo coinvolgimento diretto di Croazia e Serbia nella guerra di Bosnia, paese del quale entrambe desideravano una partizione (discussa in principio tra il 1992 ed il 1994), in guisa tale da soddisfare le mire delle rispettive leadership per una “Grande Serbia” o per una “Grande Croazia”.

Di questo passato complesso, dominato dall’etnonazionalismo, i due paesi devono rispondere in modo coerente. Al momento, nè il governo dell’HDZ, l’Unione Democratica Croata, nè l’amministrazione del presidente Vucic hanno, in alcun modo, mostrato la buona volontà di riconoscere i crimini commessi dai loro predecessori. In poche parole, a Zagabria ed a Belgrado non v’è alcun Willy Brandt pronto ad inginocchiarsi a Canossa (o nel caso specifico del cancelliere tedesco, al ghetto di Varsavia).

Anzi, al contrario, imperversano il revisionismo ed il negazionismo storico, mentre, dietro alle dichirazioni di circostanza, si nota la presenza delle stesse aspirazioni (o velleità) espansionistiche viste durante la guerra, malgrado l’ingresso della Croazia nella NATO (2009) e nell’Unione Europea e la promessa di un’entrata della Serbia (non membro NATO) nella famiglia europea entro il 2025

Difficilmente passa un giorno senza che, a turno, il presidente della Republika Srpska Milorad Dodik non minacci l’integrità territoriale bosniaca, subito seguito dalle dichirazioni sulle stesso tono del membro croato della presidenza tripartia della Bosnia Dragan Covic, che sogna una terza entità a maggioranza croata. E quest’ultimo, nei momenti concitati dopo il suicidio in diretta del generale Slobodan Praljak, ha rivelato la sua celata intenzione di mantenere la Bosnia fuori sia dall’Alleanza Atlantica che dall’UE, prima che gli venisse fatto notare come la sua retorica fosse un po’ troppo tagliente e pericolosa. Tuttavia i fatti rimangono: Croazia e Serbia non hanno mai smesso di considerare la Bosnia come una creazione temporanea, che tornerà a loro disposizione nel prossimo futuro.

I governi serbo e croato hanno più volte protestato riguardo ad un’ammissione di responsabilità nei confronti dei crimini passati, uguagliano il gesto ad una irreparabile umiliazione nazionale. Su questo aspetto v’è una logica: è più semplice scivolare verso un autoritarismo illiberale ed un corteggiamento nemmeno troppo nascosto di un rinnovato estremismo politico piuttosto che rivalutare il proprio trascorso con onestà. Ciò nondimeno, è proprio l’azione di distanziarsi dal passato che permetterà a Serbia e Croazia di ricostruirsi un’identità nazionale che prescinda dalle guerre di Tudjman e Milosevic. Invece della glorificazione delle loro figure, sarebbe più salutare a Zagabria e Belgrado, una celebrazione della sconfitta di quell’ideologia nazionalista delle “piccole patrie” che tanto orrore ha portato nei Balcani, finalmente restituendo alla Bosnia la sua dignità di stato, cessando di contribuire alla sua autodistruttiva autofagia.

Solo sconfessando ciò che è stato (e ci si auspica, mai sarà di nuovo), per Croazia e Serbia si aprirà una nuova pagina della loro storia.

 

Serbia: in crescita le morti causate dai tumori

Come oggi riporta il quotidiano Blic, sono in crescita in Serbia le morti causate dai tumori negli ultimi 30 anni.

Il giornale ha calcolato come i decessi siano aumentati dal 1986 ad oggi. Nell’inizio di inizio dello studio, le morti erano 83.977, di cui solo 12.180 causate da un cancro.

Oggi, nel 2017, le morti ammontano a 100.834, di cui 21.526 a seguito di un tumore, che, seconda la statistica, colpisce più gli uomini che le donne (56,9% contro 43,08%, 12.253 a 9.273)

Il cancro più letale in Serbia è quello ai polmoni (5.335 decessi, un quarto del totale), mentre al secondo posto si colloca il cancro al colon-retto (poco più di 2.500 casi); al terzo posto il tumore al seno (1.757 donne) e poco distanziato quello al pancreas (1.151).

Le autorità hanno ricordato come sia fondamentale ridurre i fattori di rischio (alcolismo, esposizione estrema al sole, il fumo, l’obesità) e quanto la Serbia si stia dotando di strumenti per accelerare le diagnosi per poter efficacemente contrastare il cancro. L’identificazione precoce, infatti, elemento sottolineato da numerosi medici del paese, è un passo centrale per garantire maggiori probabilità di guarigione.

Fonte: Blic.rs

Balcani: oggi la cerimonia di chiusura del Tribunale Internazionale all’Aia

Oggi all’Aia, la cerimonia di chiusura del Tribunale Internazionale per i crimini di guerra nell’ex Jugoslavia, attivato nel 1993, a conflitto ancora in corso.

Nonostante la Corte abbia, a detta del suo presidente, Carmel Agius, ridefinito la giustizia internazionale e completato la sua missione, allo stesso tempo la sua eredità rimane confusa e discussa.

Mentre nei Paesi Bassi si celebra la fine di un simbolo della Comunità Internazionale, alcuni degli imputati, ritornati nei loro paesi (Kosovo, Macedonia, Bosnia, Serbia, Croazia) a ricoprire ruoli di responsabilità, talvolta accolti come eroi, anche dopo aver scontato condanne alla reclusione. Coloro, invece, spirati in attesa delle sentenze, hanno ricevuto omaggi e l’etichetta di martire, in un rovesciamento della realtà oggettiva.

Il Tribunale ha condannato 90 persone, più di ogni altra Corte Internazionale, configurando, nel frattempo, una storia giuridica di quanto accaduto nei territori della ex-Jugoslavia.

Tuttavia, come hanno dimostrato gli eventi degli ultimi due mesi, la Corte non ha avuto successo nel promuovere la riconciliazione, anche per l’assenza, nei paesi coinvolti, di una volontà di accettare le colpe e le proprie responsabilità.

Come ricorda il magistrato e procuratore belga Serge Brammerz, le reazioni alle condanne (es. Prljic et al.) hanno sottolineato più lo status di eroi nazionali dei colpevoli che una pubblica assunzione di consapevolezza riguardo ai crimini da loro commessi. Tale atteggiamento catalizza l’attenzione sulla figura del criminale di guerra, rimandando sine die il riconoscimento delle colpe individuali e nazionali.

Gli ultimi due verdetti, altamente drammatici, hanno solo riportato alla ribalta la problematica. Il suicidio in diretta dell’ex generale croato Slobodan Praljak e l’ergastolo comminato a Ratko Mladic sono stati accompagnati da clamore mediatico e, soprattutto nel primo caso, manifestazione di dissenso verso la decisione della Corte Internazionale. A questo proposito, sono risultate essenziali le richieste di numerose organizzazioni internazionali di non dimenticare le vere vittime ed i crimini commessi ai loro danni, cercando di collocare in secondo piano la spettacolarità di quanto accaduto nelle aule del Tribunale.

Un altro punto critico, la mancanza di compensazioni per le vittime, apparse in aula solo come spettatatrici o testimoni. Benché sia un tema sentito, specialmente i bosniacchi si ritengono soddisfatti dell’operato della Corte, soprattutto per quanto concerne gli eventi che hanno avuto luogo sul territorio bosniaco, il teatro più sanguinoso del conflitto. Il Tribunale, inoltre, ha posto le basi per la continuazione dei suoi compiti all’interno dei sistemi giudiziari dei singoli paesi, tramite un sistema di corti nazionali, che come rimarca Jasmin Meskovic, presidente dell’Associazione che unisce i superstiti dei campi di detenzione serbi in Bosnia, é un passo avanti rispetto alla altrimenti totale impunità delle violazioni commesse sul suolo bosniaco: “se non avessimo avuto l’ICTY, i nostri tribunali non avrebbero potuto fare nulla”.

L’opinione sull’operato del Tribunale, però, è più critica se si considerano le altre due etnie coinvolte nei conflitti. Da parte serba, rimane radicata la percezione che l’ICTY abbia punito eccessivamente i serbi, a causa di un profondo pregiudizio nei loro confronti. Le parole di Branislav Dukic, ex-presidente dell’Associazione degli ex-detenuti nei campi della Repubblica Srpska, riassumono il punto di vista:

“La Corte è stata uno spettacolo, senza che vi sia stata giustizia. Il Tribunale non ha mai parlato delle vittime serbe. Hanno stabilito che Sarajevo è stata attaccata dalle posizioni serbe, ma mai ha parlato dell’esistenza di 126 campi di detenzione in mano all’Esercito della Federazione.”

Rincara il presidente della ONG Veritas, Savo Strbac, “il Tribunale ha formulato verdetti selettivi e parziali”, indicando come su 90 condannati, ben 64 siano di etnia serba. Il dato fa da contraltare alle scarcerazioni dei leader dell’Esercito kosovaro di Liberazione, tra cui Ramush Haradinaj, che hanno alimentato ulteriormente il malcontento serbo, mentre l’ICTY ha riconosciuto la responsabilità del governo di Belgrado nei crimini di guerra perpetrati in Kosovo contro la popolazione di etnia albanese (condannato sei funzionari alla reclusione).

Anche i serbi di Croazia hanno espresso la loro insoddisfazione per l’incapacità della Corte di considerare le vittime dell’Operazione Tempesta (Oluja) del 1995 e le stesse accuse sono state mosse dai familiari dei caduti di Vukovar, assediata dalle truppe serbe nel periodo tra agosto e novembre 1991 (87 giorni di combattimenti, stime non ufficiali quantificato le perdite croate nell’ordine della decina di migliaia, tra soldati e civili). Paradossalmente, come i serbi puntano il dito sulla presunta parzialità della Corte, lo stesso fanno i croati, convinti che il Tribunale abbia una preferenza per la versione raccontata dagli imputati della Serbia, non riconoscendo, quindi, l’aggressione di Belgrado ai danni del territorio croato.

Oltre a quanto già detto, il Tribunale non ha offerte risposte chiare su alcuni dei fatti più controversi del conflitto, compresa la possibile conoscenza da parte del governo serbo dello svolgersi dell’eccidio di Srebrenica, in quanto Slobodan Milosevic è venuto a mancare prima che il suo verdetto potesse essere presentato. Alcune vittime, per di più, sono state deluse dal riconoscimento di Srebrenica come unico caso di genocidio sul territorio bosniaco, mentre avrebbero voluto vedere i massacri perpetrati dalle truppe serbe in altre sei località della Bosnia nel 1992 essere considerati allo stesso modo. Il disappunto è ancor più vivo per il fallimento di stabilire un collegamento diretto tra le truppe serbe di Bosnia con la leadership di Belgrado, che resterà per sempre un punto irrisolto, assieme ai crimini commessi dall’Armata Jugoslava in Croazia orientale, essendo stato assolo il generale Momcilo Perisic.

Alla chiusura, il Tribunale verrà sostituito da un altro istituto, il Mechanism for International Crimes Tribunal, che gestirà i casi e gli appelli rimanenti, sempre locato all’Aia. Sua sarà la responsabilità per gli appelli presentati da Radovan Karadzic, Ratko Mladic ed il leader del partito radicale serbo, Vojislav Seselj, più la ripetizione del processo ai funzionari per la Sicurezza Nazionale, i serbi Franko Siimatovic e Jovica Stanisic, nonché l’onere di mantenere l’archivio della Corte Internazionale, contenente le investigazioni, le prove, i verdetti ed i documenti di rilievo di tutti i casi presentati dinnanzi al Tribunale. Il piano per i prossimi anni comprende un trasferimento dell’archivio nei territori della ex-Jugoslavia, ma, alla data odierna, solo Sarajevo si è dichiarata pronta ad ospitarlo.

Persistono, comunque, le incertezze sulla conduzione dei processi in loco, presso le corti nazionali. Purtroppo, non sussistono alternative a questa soluzione, come ha ricordato Brammerz, pur ammettendo che le ingerenze da parte della politica e l’endemica scarsità di risorse a cui sono sottoposte queste corti, rallentino o pregiudichino un risultato finale soddisfacente.

Come lui stesso ha concluso, per Balkan Insight:

“Ho avuto a che fare con la regione per gli scorsi 10 anni. Ho incontrato molti procuratori dall’incredibile coraggio e dall’inflessibile motivazione; spero che vi sia presto un supporto da parte della politica verso il loro operato in futuro”.

Guardandosi indietro, rimane una considerazione amara da avanzare: dopo 24 anni Bosnia, Serbia, Croazia e Kosovo non hanno ancora trovato una pace interna ed una via ad un rilancio economico e sociale che sia sostenibile, che dia speranza. Non hanno ancora chiuso il capitolo dei conflitti che li hanno scossi durante gli anni Novanta, lasciando spesso troppi punti di domanda e questioni insolute, a cui nessuno, ormai, potrà fornire una risposta.

Serbia: l’obiettivo è l’ingresso nell’EU

Il primo ministro della Serbia Ana Brnabić ha dichiarato oggi come l’ingresso nell’Unione Europa sia l’obiettivo strategico del paese, esprimendo la sua soddisfazione per l’inclusione della Serbia nella lista dei paesi con più possibilità di accedere alla famiglia europea, puntualizzando, tuttavia, che se alcune riforme sono in cantiere per avvicinare ulteriormente il paese alle richieste di Bruxelles, altre resteranno bloccate fino all’effettivo ingresso della Serbia nell’EU.

Successivamente, la Brnabić ha anche messo in risalto come l’Unione Europea non abbia mai facilitato il processo di avvicinamento della Serbia, nè abbia particolarmente considerato o promosso il paese come economia ricettiva agli investimenti esteri.

Il primo ministro ha comunque ricordato come la Serbia abbia la necessità di operare riforme drastiche, come richiesto dalla Banca Mondiale. Tali cambiamenti sono già cominciati, a partire dalla privatizzazione di alcune compagnie statali che hanno permesso, per la prima volta dopo 12 anni, di avere un avanzo nel budget e di ridurre il debito dello stato. Alla fine del 2017, inoltre, il dato afferente alla disoccupazione è stato dimezzato, avvicinandosi al 12%. Rispetto al 2014, in Serbia il settore statale ha subito un taglio di 40.000 unità, alleggerendo il carico fiscale portato dagli stipendi e relative pensioni.

Per ciò che concerne il Kosovo, la Brnabić ha comunicato che mentre la Serbia ha firmato ed applicato l’accordo per la normalizzazione delle relazioni firmato con la Repubblica kosovara a Bruxelles, Pristina deve ancora cominciare i lavori per la ratifica. Di conseguenza Belgrado intende fare pressione sul governo del Kosovo perchè tale processo abbia inizio.

 

Fonte: Governo della Repubblica di Serbia

Serbia: focus sull’informatica

Il primo ministro serbo Ana Brnabić ha dichiarato che in Serbia, il settore IT necessita di 15.000 lavoratori, prevedendo un aumento delle quote d’ammissione alle facoltà scientifiche ed una maggiore formazione a livello scolastico per affrontare il problema.

Il programma governativo prevede di formare 20.000 lavoratori e di riqualificarne altri 1.000.

Secondo l’ufficio nazionale del lavoro i fondi copriranno i corsi di riqualifica per 1000 persone, a cui se ne aggiungeranno altri 500, stando ai dati forniti dalla Kancelarijeza za informacione tehnologije i E upravu, portando il numero totale a 1.500.

“Puntiamo ad averne 2.500 alla fine. Stiamo lavorando in parallelo per aumentare le quote d’ammissione delle università. Questo ottobre l’incremento è già stato del 20%. Inoltre, dobbiamo lavorare di più con e per gli istituti professionali. ” ha aggiunto la Brnabić.

“Al Ministero dell’Educazione stanno gestendo in maniera ottimale il budget a loro allocato. Come avete visto, il ministro sta discutendo di introdurre i tablet nelle aule di scuola, di digitalizzare i curricula. Al momento, un programma così ambizioso è attivo solo in Finlandia.” ha detto il primo ministro durante la conferenza stampa di ieri a Belgrado.

Sul budget assegnato al dicastero, si è poi espressa ricordando come il Ministero dell’Educazione, abbia, in accordo con la volontà del governo, posto in cima alle sue priorità l’introduzione massiccia di tecnologie informatiche a tutti i livelli scolastici, con particolare attenzione, come già puntualizzato, agli istituti di formazione professionale, che saranno il focus dell’anno 2018. Allo stesso modo, anche l’avviamento al lavoro, in ottica di ridurre la disoccupazione in Serbia, sarà uno dei punti chiave su cui si concentreranno gli investimenti governativi, in crescita rispetto a quelli ricevuti dal Ministero nel 2017.

Le dichiarazioni hanno attratto l’attenzione anche del Presidente serbo Alexsandar Vucic che ha lodato le qualità della sua collega, ponendo l’enfasi sulla volontà della Brnabić di investire con continuità su formazione e sull’educazione, aspetti chiave per lo sviluppo futuro della Serbia.

 

Fonte: Blic – RS

 

Serbia: condannati i poliziotti che aggredirono il fratello del presidente Vučić

L’alta Corte di Belgrado ha condannato venerdi’ gli otto poliziotti che aggredirono il fratello del presidente Vučić durante la manifestazione Belgrado Pride del 2014. A sei degli imputati e’ stata comminata una sentenza sospesa di sei mesi con due anni di liberta’ vigitilata, mentre il settimo ha ricevuto una condanna ad otto mesi, essendo stato riconosciuto colpevole di aver aggredito  del personale militare in servizio attivo. L’ottavo, invece, e’ stato rilasciato.

L’incidente e’ avvenuto il 28 settembre 2014, quando diversi membri della Gendarmeria della capitale che erano stati schierati lungo le strade di Belgrado per assicurare la sicurezza della manifestazione, avevano assaltato Andrej Vučić, il fratello dell’attuale presidente della Serbia. Pedrag Mali, il fratello del sindaco di Belgrado e due membri della polizia militare, parte della guardia del corpo di Vučić, sono anche stati vittima dell’attacco.

La dinamica dell’incidente era sembrata confusa fin dall’inizio, quando l’allora primo ministro Aleksandar Vučić aveva inizialmente ridimensionato l’accaduto, attribuendo la responsabilita’ al nervosismo dei gendermi , chiamati a sorvegliare sul regolare svolgimento  di una manifestazione, il Gay Pride di Belgrado, alquanto controversa, ed al tentativo del fratello, accompagno da Mali, di superare il cordone di sicurezza previsto dalla polizia. In aggiunta, aveva aggiunto Vučić, il gruppo di gendarmi inviati nella capitale era reduce da un intervento nel sud della Serbia, dove aveva risposto a degli attacchi terroristici organizzati da individui di etnia albanese. L’impegno, sempre secondo l’allora primo ministro, poteva aver acuito la loro stanchezza ed intaccato la loro capacita’ decisionale.

A confondere ulteriormente le acque, nel 2015, la testimonianza di uno dei membri della Gendarmeria, Dalibor Đorđević, nella quale il poliziotto aveva sostenuto di essere stato lui la vittima della condotta indisciplinata di Andrej Vučić, che lo avrebbe colpito al volto, dopo essersi rifiutato di obbedire all’ordine di fermarsi. Secondo quanto riportato dal gendarme, il gruppo di Vučić sarebbe ricorso anche a bottiglie usate come oggetti contundenti e sarebbe stato in possesso di armi da fuoco, ignorando ripetutamente la richiesta di esibire dei documenti di identificazione. Lo scoppio di violenza successivo, quindi, sarebbe stata semplice legittima difesa. Aleksandar Vučić aveva sdegnosamente tacciato Đorđević di mentire, negando che il fratello avesse commesso delle infrazioni.

Il giudizio e’ stato formulato partendo dalle testimonianze oculari, corroborate dalla presenza di registrazioni raccolte dalle telecamere di sicurezza che hanno ripreso la scena.

La difesa ha espresso la sua relativa soddisfazione per il verdetto, riversandosi comunque di ricorrere in appello riguardo ad alcune parti della sentenza.

Fonte: Balkan Insight

Belgrado: premiere al Piccolo Teatro Duško Radić

Stasera alle ore 20, la premiere dell’adattamento teatrale del romanzo “Moby Dick” di Herman Melville, diretto da Snežane Trišić.

Diversamente dal libro dove non vi sono personaggi femminili, il ruolo di protagonista è stato affidato ad un’attrice che interpreterà una donna dei giorni nostri che si ritroverà calata nel contesto narrativo di Moby Dick dopo aver viaggiato nel passato attraverso il mondo dei sogni.

La pièce si propone di offrire agli spettatori una riflessione sulla relazione tra l’uomo e la natura che lo circonda, partendo proprio dal capolavoro di Melville. 

Calcio: il Partizan capitola a Kiev

Nell’ultimo della fase a gironi, il Partizan Belgrado riceve una lezione di calcio dalla Dinamo Kiev, che sul proprio terreno demolisce i serbi per 4-1.

La squadra ucraina aveva già virtualmente chiuso la partita alla fine del primo tempo, andando al riposo avanti per 3-1, dopo il vantaggio di Morozyuk al 6′ e la doppietta in rapida succesione di Moraes (28′ e 31′), che nella seconda frazione ha segnato nuovamente al 77′, portando il suo bottino a tre reti. Per gli ospiti solo un rigore trasformato al 49′ da Jevtović.

Nonostante la sconfitta, i bianconeri di Serbia si qualificano per la fase successiva come secondi nel gruppo B, con 8 punti, a 5 punti dalla Dinamo capolista.