Tag Archives: Serbia

Balcani: 2018 cruciale

La Strategia dell’Unione Europea per l’integrazione dei Balcani Occidentali preparata dalla Commissione Europea, dovrebbe essere presentata il 6 febbraio 2018.
Nonostante le dichiazione del Presidente della Commissione Jean Claude Juncker che sembravano identificare solo la Serbia ed il Montenegro, in prima fila nel processo di ingresso nell’UE, come gli unici soggetti della Strategia, il programma dovrebbe riguardare anche gli altri paesi dei Balcani Occidentali, Albania, Bosnia, Kosovo e Macedonia.
La nuova Strategia avrà tra gli obiettivi la lotta alla corruzione, il rafforzamento dello stato di diritto, la stabilità generale della regione e la giustizia. La bozza della strategia contiene anche la conclusione di un accordo legalmente vincolante tra il governo di Belgrado e quello di Pristina da suggellarsi entro la fine del 2019.
Il documento è un passo fondamentale nel processo di avvicinamento dei paesi balcanici alla famiglia europea. Come ha commentato l’analista Srdan Cvijic, che si occupa delle relazioni esterne dell’Unione, è necessario che la Strategia tocchi cinque punti, che, a suo avviso, sono gli snodi centrali per ridare popolarità alle manovre di ingresso. Prima di tutto, il documento, puntualizza Cviijc, deve definire la trasparenza e la prevedibilità del processo; in secondo luogo, è importante che vi sia menzione dell’istituzione di meccanismi nuovi che monitorino lo stato dei progressi nei singoli paesi, della possibilità di rilasciare maggiori fondi a disposizioni per i Balcani Occidentali destinati alle infrastrutture, di un programma atto alla socializzazione delle elite politiche ed infine dell’integrazione dei cittadini dei paeesi coinvolti nell’area dell’Unione Europea attraverso differenti misure.
Il 2018 sarà un anno cruciale per le speranze di avvicinamento dei Balcani Occidentali all’Unione. Oltre alla summenzionata Strategia, il prossimo anno vedrà la Bulgaria come presidente di turno dell’UE, un paese che non ha mai nascosto la sua volontà di partecipare attivamente al processo di allargamento, tanto da fare di quest’ultimo una delle priorità della sua presidenza. E’ in questo contesto che la capitale Sofia ospiterà il 17 maggio 2018 un summit tra l’Unione ed i leader politici dei sei paesi dei Balcani Occidentali, un anticipo dell’appuntamento di Londra del 10 luglio, quinto incontro multilaterale del Processo di Berlino, l’ultimo previsto.
Entrambi gli episodi sono considerati dagli analisti come momenti rivelatori del futuro atteggiamento dell’Unione nei confronti dei sei paesi balcanici, soprattutto per verificare la propensione dell’Europa di adottare politiche piu’ aggressive per consentire l’accesso dei Balcani Occidentali, in controtendenza con un approccio maggiormente morbido e, generalmente, meno efficace. Tale variazione di rotta potrebbe rivelarsi decisiva per le nazioni che oggi risultano in ritardo rispetto alla maggioranza della regione, come Bosnia e Kosovo. Senza il supporto forte e continuo dell’Unione, il processo di integrazione potrebbe essere faticoso, dispendioso e complesso, spegnendo così gli entusiasmi nella popolazione bosniaca o kosovara. Tuttavia, benché vi siano segnali di incoraggiamento, la nuova presidenza del Consiglio d’Europa sarà austriaca: il nuovo governo, guidato dal giovanissimo Sebastian Kurz, sembra interessato ad occuparsi di stabilità interna, sicurezza dei confini e gestione dei flussi migratori, in parallelo con le trattative post-Brexit ed il varo del nuovo budget UE. Probabile, quindi, che non vi sia grande spazio per i Balcani Occidentali nell’agenda di Kurz. Un altro punto dolente sono le dichiarazioni di supporto di Strache, partner di coalizione nel governo austriaco, verso la Republika Sprka ed il suo presidente Milorad Dodik e la negazione da parte del Partito della Libertà di Strache dell’indipendenza del Kosovo.

Bosnia: Dodik in lista nera degli USA

Milorad Dodik, presidente dell’entità serba di Bosnia, la Republika Srpska, è stato incluso nella “lista nera” dal governo degli Stati Uniti, come riporta in un’intervista concessa al quotidiano di Sarajevo l’ambasciatrice americana Maureen Cormack.
La decisione è stata presa al vertica e risponde a dei criteri specifici che orientano la politica del gigante statunitense in Bosnia. La Cormack ha dichiarato:

“La politica americana in Bosnia è molto chiara. Noi supportiamo questo paese, la sua integrità territoriale, la Costituzione disciplinata negli Accordi di Dayton, il processo di integrazione della Bosnia all’interno dell’Unione Europea e se Dodik dovesse cominciare ad impegnarsi su progetti che facciano il bene dei cittadini bosniaci, come ho detto ripetutamente, noi siamo pronti a lavorare con ogni leader che condividono gli obiettivi di cui sopra. “
La decisione, ha aggiunto, non è contro i cittadini della RS o contro l’esistenza stessa dell’entità. L’ambasciatrice ha tenuto a precisare che il governo americano continua e continuerà a cooperare con le istituzioni serbo-bosniache, come dimostra il progetto di supporto all’economia Farma 2 o il programma USAID.
“Infatti mi preme sottolineare che è Dodik ad aver deciso quanto sta accadendo. Semplicemente, deve abbandonare la retorica nazionalista e secessionista, l’opposizione ferma e decisa al processo di integrazione della Bosnia nello scacchiere euro-atlantico e tutte quelle dichiarazioni che sembrano voler solamente rallentare lo sviluppo del paese.” ha concluso la Cormack.

Fonte: N1, Oslobodjenje

Serbia: aiuti finanziari per Srebrenica

In arrivo un aiuto finanziario da Belgrado per Srebrenica, concesso durante la visita nella capitale serba del sindaco della città Mladen Grujicic con il presidente Vucic.
I fondi sono rivolti a potenziali investitori serbi interessati a sviluppare la zona industriale di Potocari, specialmente per quanto riguarda la produzione di sedie.
Secondo fonti municipali, il valore delle infrastrutture già presenti si aggira attorno ad 850.000 euro, ai quali è necessario aggiungerne altri 150.000 per le operazioni di ristrutturazione e di rimessa in funzione. Il progetto, una volta a pieno regime, dovrebbe essere in grado di espandere i posti di lavoro da 70 previsti all’inizio delle operazioni di ricostruzione, a 300, sempre stando alle stime fornite dagli uffici del sindaco.
Gli spazi e le strutture erano di proprietà della Srebrenica Prevoz, acquistata dalla compagnia di Bjeljina Bobar durante il processo di privatizzazione, poi venduta alla slovena Neo Dom. A seguito delle compravendite, la produzione è cessata, mentre i macchinari sono stati ceduti a terzi, bloccando di fatto l’attività delle fabbriche, che ad oggi, sono ferme da 15 anni, nonostante continui proclami di un rilancio imminente.
Due anni, nel 2015, l’allora primo ministro Aleksandar Vucic, oggi come si sa presidente, promise di aiutare la municipalità di Srebrenica, preparando un piano di finanziamento di 5 millioni di euro, adesso in corso di attuazione.
Nell’ultimo biennio, 2 millioni dei 5 totali sono stati impiegati per sanare le finanze di Srebrenica mentre i rimanenti tre sono alla base di progetti di rilancio economico ed industriale dell’area.

Fonte: N1 – sgenzia di stampa

Bosnia&Serbia: confine senza controlli

Valico per l’ingresso in Serbia senza nessun controllo: Sasa Magazinovic, parlamentare del partito Social-Democratico nel parlamento nazionale della Bosnia ha voluto verificare quanto udito nei mesi scorsi. Così, il politico ha imboccato il collegamento stradale presso il ponte sul fiume Lim, nelle vicinanze di Rudo, cittadina collocata quasi al confine, scoprendo che da lì è possibile sconfinare nella vicina Serbia senza che vi sia alcun tipo di controllo al confine. E’ abbastanza possedere un fuoristrada o una vettura capace di attraversare una rete viaria poco asfaltata. Il parlamentare ha espresso la sua preoccupazione, soprattutto nel contesto della crisi migratoria, rimarcando come la sicurezza dei confini sia fondamentale. Al termine dell’esperimento, Magazinovic ha invertito la rotta, facendo ritorno nella sua Bosnia. Ovviamente indisturbato.

Fonte: N1 – agenzia di stampa

Serbia: tra gli armamenti dell’ISIS anche materiale serbo

Secondo uno studio del Conflict Armament Research di Londra sulla provenienza delle armi in mano all’ISIS, il 4,04% degli armamenti impiegati nei conflitti in Medio Oriente ha la sua origine in Serbia, per approdare successivamente in Iraq e Siria.
Delle 74 armi ricondotte al territorio serbo, solo 4 sono state prodotte tra il 200 ed oggi, mentre le rimanenti 70 risalgono all’epoca dell’ex Jugoslavia.
In mano all’ISIS anche armamenti spediti attorno al 2003 dal governo serbo ed inizialmente destinati alle forze regolari irachene. E’ stato possibile determinare l’origine del materiale attraverso il rinvenimento di 19 cassette di munizioni conosciute con il marchio “Prvi Partizan”, uno dei maggiori produttori di munizioni nel mondo con base nella città serba di Uzice, esportate legalmente in Iraq fino al 2004. Il calibro dei proiettili è compatibile con i fucili automatici di produzione russa, il kalasnijkov ed il tokarev.
Tra i maggiori fornitori, si leggono nomi conosciuti al pubblico. Al primo posto la Cina (43,5%), poi la Romania (12,12%), la Russia (9,55%), l’Ungheria (7,21%) e la Bulgaria (5,29%). Per quanto riguarda le munizioni, primeggia la Russia, con un quarto delle forniture, poi ancora Cina, con un altro quarto, la Romania, con il 15%, gli Stati Uniti con il 6,06%, la Bulgaria con il 4%, la Serbia con quasi il 3% ed infine la Turchia, con il 2,71%.
Per compilare la statistica, il CAR ha analizzato nel triennio 2014-2017 la provenienza di piu’ di 1832 singole armi e di 40.000 munizioni singole, in un territorio che va da Kobane in Siria, a Baghdad in Iraq. L’indagine è resa complessa dalla difficoltà nel ricostruire l’origine di un’arma quando a quest’ultima è stato abraso o rimosso il numero di serie, in un probabile tentativo di occultare le reti di rifornimento.

Fonte: Blic, PrviPartizan, Vlada RS

Kosovo: reazioni negative verso la Corte Speciale

Il parlamentare kosovaro Daut Haradinaj, della formazione politica Alleanza per il Futuro del Kosovo e fratello del primo ministro Ramush Haradinaj, nonché ex-combattente con l’Esercito di Liberazione del Kosovo, ha dichiarato il suo scetticismo nei confronti della nuova Corte Speciale dell’Aia che avrà giurisdizione sui crimini commessi durante il conflitto in Kosovo nel 1999.
Secondo Haradinaj, gli arresti che verranno ordinati dal Tribunale saranno fortemente contrastati dai combattenti dell’Esercito di Liberazione, che proteggerà i suoi membri dal dover sostenere un processo per i presunti illeciti di cui sono accusati. Tra le imputazioni, quella di omicidio, tortura, detenzione illegale, stupro e rapimento.
Il commento del parlamentare è stato registrato poco dopo il tentativo fallito del parlamento del Kosovo di passare una legge che proibisca alla Corte Speciale di perseguire coloro i quali hanno fatto parte dell’Esercito di Liberazione sia per i crimini commessi in tempo di guerra che per quelli del periodo successivo. La misura è stata affossata sia dal non raggiungimento del quorum all’interno dell’ufficio della presidenza del parlamento, sia a causa delle forti pressioni da Stati Uniti ed Unione Europea.
La protesta contro la nuova Corte è comunque sistemica, essendo quest’ultima condannata anche dal presidente Hashim Taci, che , mercoledì 27, ha commentato definendo il nuovo organo giudiziario “un’ingiustizia storica contro i kosovari albanesi”. Ai microfoni di Radio Free Europe, Taci ha poi espresso il suo disappunto per il non passaggio della proposta di legge, sottolineando come, piu’ che un tentativo di respingere le ingerenze internazionali, la volontà alle spalle dell’iniziativa era di permettere al Kosovo di avere la propria corte interna addetta ai crimini di guerra, in maniera non dissimile alle corti domestiche istituite in Serbia, Bosnia e Croazia.
“Anche oggi, adesso, considero la Corte Speciale un’ingiustizia storica, specialmente da quando il Tribunale per l’ex Jugoslavia è chiuso. La domanda quindi è, perchè qualcosa di speciale per il Kosovo? Siamo forse cittadini di seconda classe? Abbiamo attaccato un’altra nazione? Serbia? La Serbia ha occupato il Kosovo e la nostra è stata una guerra difensiva, per liberare il Kosovo e la sua gente.”
Nonostante le dichiarazioni, il presidente sosterrà la nuova Corte, per preservare i buoni rapporti con la Comunità Internazionale. Alla domanda postagli se fosse preoccupato di essere tra il gruppo di futuri imputati della Corte, Taci ha risposto:
“Sono orgoglioso dell’interno periodo in cui ho servito nell’Esercito di Liberazione, e sono convinto che la nostra guerra sia stata pura, corretta e legittima. Era l’unico modo per raggiungere la libertà e l’indipendenza e se accettare la Corte Speciale è il prezzo da pagare per questa libertà, ci assumeremo le nostre responsabilità, sia come cittadini che come leader istituzionali.”
L’atteggiamento prudente di Taci è giustificato dalle reazioni alla proposta di legge contro la Corte degli alleati internazionali del Kosovo. Tra tutte, spicca quella degli Stati Uniti, che tramite l’ambasciatore Greg Delawie, hanno puntualizzato come l’eventuale passaggio della legge avrebbe potuto compromettere il futuro come parte della famiglia europea del Kosovo e avuto una serie di implicazioni negative nelle relazioni tra la giovane repubblica ed il governo americano. L’ambasciatore, senza mezzi termini, ha definito la possibile approvazione dell’iniziativa, “una pugnalata alla schiena del Kosovo agli Stati Uniti”.

Fonte: BalkanInsight, BalkanEU

Serbia: memorandum di cooperazione con la Norvegia

Il Ministro della Repubblica di Serbia per il lavoro, l’impiego, i veterani ed i servizi sociali ha firmato oggi, 28 dicembre, un memorandum di cooperazione con l’ambasciatore di Norvegia in Serbia Arne Bjornstad, per confermare la collaborazione tra il governo serbo e la Norvegia nei maggiori progetti infrastrutturali nelle municipalità colpite dalla crisi dei migranti. Presenti anche i rappresentanti del “Gruppo 484”, l’organizzazione non governativa che ha preso in carico il benessere di 484 famiglie serbe sfollate dall’Operazione Oluja del 1995 e che, nell’ultimo periodo, ha focalizzato la sua attenzione sulle condizioni di vita dei migranti che hanno trovato rifugio in Serbia. La fondatrice, la ballerina ed attivista per la pace Jelena Santic ha ricevuto il Pax Christi International Annual Peace Prize nel 1996. Tra le precedenti inziative, l’aiuto ai profughi durante le ostilità in Kosovo nel 1999 e l’assistenza agli sfollati dopo la cessazione del conflitto seguito alla dissoluzione violenta della Jugoslavia.
Il ministro Dordevic ha rimarcato l’importanza di poter fornire dei servizi educativi all’altezza, che siano inclusivi e permettano ai minori delle famiglie dei migranti di poter accedere alla scolarizzazione sul territorio serbo.

Croazia&Serbia: il nazionalismo ed il futuro

Quando gli Stati Uniti d’America e l’Unione Europea hanno iniziato a chiamare i territori dell’ex-Jugoslavia con il termine di Balcani Occidentali nei primi anni 2000, una delle motivazioni era identificare una cesura tra il passato di conflitti e violenza ed un futuro pacifico.

Tuttavia, il 2017 si avvia ad una conclusione che pone l’accento sulla trasformazione incompleta dell’idenitità soprattutto di Croazia e Serbia, che, seppur abbiano compiuto dei passi avanti fondamentali, sembrano non voler rinunciare a ricorrere ad una certa intransigenza politica.

Per avere una controprova, si analizzino le reazioni a quanto concluso dall’ICTY, che giovedì ha celebrato l’imminente chiusura: la Corte ha chiaramente stabilito, nei suoi quasi venticinque anni di attività, i caratteri somatici del conflitto seguito alla dissoluzione della Jugoslavia, con attenzione particolare per i fatti che hanno interessato la Bosnia.

La ricostruzione ha puntualmente ricondotto le responsabilità dei governi di Zagabria e Belgrado del finanziamento e mantenimento alle forze armate nazionaliste attive sul terreno, ossia l’HVO e la VRS, le quali erano, chiaramente, appendici dei suddetti governi di cui perseguivano gli obiettivi. La presenza delle firme dei due presidenti, Tudjman e Milosevic, sugli accordi di Dayton, vicino ad Izetbegovic, confermano questo coinvolgimento diretto di Croazia e Serbia nella guerra di Bosnia, paese del quale entrambe desideravano una partizione (discussa in principio tra il 1992 ed il 1994), in guisa tale da soddisfare le mire delle rispettive leadership per una “Grande Serbia” o per una “Grande Croazia”.

Di questo passato complesso, dominato dall’etnonazionalismo, i due paesi devono rispondere in modo coerente. Al momento, nè il governo dell’HDZ, l’Unione Democratica Croata, nè l’amministrazione del presidente Vucic hanno, in alcun modo, mostrato la buona volontà di riconoscere i crimini commessi dai loro predecessori. In poche parole, a Zagabria ed a Belgrado non v’è alcun Willy Brandt pronto ad inginocchiarsi a Canossa (o nel caso specifico del cancelliere tedesco, al ghetto di Varsavia).

Anzi, al contrario, imperversano il revisionismo ed il negazionismo storico, mentre, dietro alle dichirazioni di circostanza, si nota la presenza delle stesse aspirazioni (o velleità) espansionistiche viste durante la guerra, malgrado l’ingresso della Croazia nella NATO (2009) e nell’Unione Europea e la promessa di un’entrata della Serbia (non membro NATO) nella famiglia europea entro il 2025

Difficilmente passa un giorno senza che, a turno, il presidente della Republika Srpska Milorad Dodik non minacci l’integrità territoriale bosniaca, subito seguito dalle dichirazioni sulle stesso tono del membro croato della presidenza tripartia della Bosnia Dragan Covic, che sogna una terza entità a maggioranza croata. E quest’ultimo, nei momenti concitati dopo il suicidio in diretta del generale Slobodan Praljak, ha rivelato la sua celata intenzione di mantenere la Bosnia fuori sia dall’Alleanza Atlantica che dall’UE, prima che gli venisse fatto notare come la sua retorica fosse un po’ troppo tagliente e pericolosa. Tuttavia i fatti rimangono: Croazia e Serbia non hanno mai smesso di considerare la Bosnia come una creazione temporanea, che tornerà a loro disposizione nel prossimo futuro.

I governi serbo e croato hanno più volte protestato riguardo ad un’ammissione di responsabilità nei confronti dei crimini passati, uguagliano il gesto ad una irreparabile umiliazione nazionale. Su questo aspetto v’è una logica: è più semplice scivolare verso un autoritarismo illiberale ed un corteggiamento nemmeno troppo nascosto di un rinnovato estremismo politico piuttosto che rivalutare il proprio trascorso con onestà. Ciò nondimeno, è proprio l’azione di distanziarsi dal passato che permetterà a Serbia e Croazia di ricostruirsi un’identità nazionale che prescinda dalle guerre di Tudjman e Milosevic. Invece della glorificazione delle loro figure, sarebbe più salutare a Zagabria e Belgrado, una celebrazione della sconfitta di quell’ideologia nazionalista delle “piccole patrie” che tanto orrore ha portato nei Balcani, finalmente restituendo alla Bosnia la sua dignità di stato, cessando di contribuire alla sua autodistruttiva autofagia.

Solo sconfessando ciò che è stato (e ci si auspica, mai sarà di nuovo), per Croazia e Serbia si aprirà una nuova pagina della loro storia.

 

Serbia: in crescita le morti causate dai tumori

Come oggi riporta il quotidiano Blic, sono in crescita in Serbia le morti causate dai tumori negli ultimi 30 anni.

Il giornale ha calcolato come i decessi siano aumentati dal 1986 ad oggi. Nell’inizio di inizio dello studio, le morti erano 83.977, di cui solo 12.180 causate da un cancro.

Oggi, nel 2017, le morti ammontano a 100.834, di cui 21.526 a seguito di un tumore, che, seconda la statistica, colpisce più gli uomini che le donne (56,9% contro 43,08%, 12.253 a 9.273)

Il cancro più letale in Serbia è quello ai polmoni (5.335 decessi, un quarto del totale), mentre al secondo posto si colloca il cancro al colon-retto (poco più di 2.500 casi); al terzo posto il tumore al seno (1.757 donne) e poco distanziato quello al pancreas (1.151).

Le autorità hanno ricordato come sia fondamentale ridurre i fattori di rischio (alcolismo, esposizione estrema al sole, il fumo, l’obesità) e quanto la Serbia si stia dotando di strumenti per accelerare le diagnosi per poter efficacemente contrastare il cancro. L’identificazione precoce, infatti, elemento sottolineato da numerosi medici del paese, è un passo centrale per garantire maggiori probabilità di guarigione.

Fonte: Blic.rs

Balcani: oggi la cerimonia di chiusura del Tribunale Internazionale all’Aia

Oggi all’Aia, la cerimonia di chiusura del Tribunale Internazionale per i crimini di guerra nell’ex Jugoslavia, attivato nel 1993, a conflitto ancora in corso.

Nonostante la Corte abbia, a detta del suo presidente, Carmel Agius, ridefinito la giustizia internazionale e completato la sua missione, allo stesso tempo la sua eredità rimane confusa e discussa.

Mentre nei Paesi Bassi si celebra la fine di un simbolo della Comunità Internazionale, alcuni degli imputati, ritornati nei loro paesi (Kosovo, Macedonia, Bosnia, Serbia, Croazia) a ricoprire ruoli di responsabilità, talvolta accolti come eroi, anche dopo aver scontato condanne alla reclusione. Coloro, invece, spirati in attesa delle sentenze, hanno ricevuto omaggi e l’etichetta di martire, in un rovesciamento della realtà oggettiva.

Il Tribunale ha condannato 90 persone, più di ogni altra Corte Internazionale, configurando, nel frattempo, una storia giuridica di quanto accaduto nei territori della ex-Jugoslavia.

Tuttavia, come hanno dimostrato gli eventi degli ultimi due mesi, la Corte non ha avuto successo nel promuovere la riconciliazione, anche per l’assenza, nei paesi coinvolti, di una volontà di accettare le colpe e le proprie responsabilità.

Come ricorda il magistrato e procuratore belga Serge Brammerz, le reazioni alle condanne (es. Prljic et al.) hanno sottolineato più lo status di eroi nazionali dei colpevoli che una pubblica assunzione di consapevolezza riguardo ai crimini da loro commessi. Tale atteggiamento catalizza l’attenzione sulla figura del criminale di guerra, rimandando sine die il riconoscimento delle colpe individuali e nazionali.

Gli ultimi due verdetti, altamente drammatici, hanno solo riportato alla ribalta la problematica. Il suicidio in diretta dell’ex generale croato Slobodan Praljak e l’ergastolo comminato a Ratko Mladic sono stati accompagnati da clamore mediatico e, soprattutto nel primo caso, manifestazione di dissenso verso la decisione della Corte Internazionale. A questo proposito, sono risultate essenziali le richieste di numerose organizzazioni internazionali di non dimenticare le vere vittime ed i crimini commessi ai loro danni, cercando di collocare in secondo piano la spettacolarità di quanto accaduto nelle aule del Tribunale.

Un altro punto critico, la mancanza di compensazioni per le vittime, apparse in aula solo come spettatatrici o testimoni. Benché sia un tema sentito, specialmente i bosniacchi si ritengono soddisfatti dell’operato della Corte, soprattutto per quanto concerne gli eventi che hanno avuto luogo sul territorio bosniaco, il teatro più sanguinoso del conflitto. Il Tribunale, inoltre, ha posto le basi per la continuazione dei suoi compiti all’interno dei sistemi giudiziari dei singoli paesi, tramite un sistema di corti nazionali, che come rimarca Jasmin Meskovic, presidente dell’Associazione che unisce i superstiti dei campi di detenzione serbi in Bosnia, é un passo avanti rispetto alla altrimenti totale impunità delle violazioni commesse sul suolo bosniaco: “se non avessimo avuto l’ICTY, i nostri tribunali non avrebbero potuto fare nulla”.

L’opinione sull’operato del Tribunale, però, è più critica se si considerano le altre due etnie coinvolte nei conflitti. Da parte serba, rimane radicata la percezione che l’ICTY abbia punito eccessivamente i serbi, a causa di un profondo pregiudizio nei loro confronti. Le parole di Branislav Dukic, ex-presidente dell’Associazione degli ex-detenuti nei campi della Repubblica Srpska, riassumono il punto di vista:

“La Corte è stata uno spettacolo, senza che vi sia stata giustizia. Il Tribunale non ha mai parlato delle vittime serbe. Hanno stabilito che Sarajevo è stata attaccata dalle posizioni serbe, ma mai ha parlato dell’esistenza di 126 campi di detenzione in mano all’Esercito della Federazione.”

Rincara il presidente della ONG Veritas, Savo Strbac, “il Tribunale ha formulato verdetti selettivi e parziali”, indicando come su 90 condannati, ben 64 siano di etnia serba. Il dato fa da contraltare alle scarcerazioni dei leader dell’Esercito kosovaro di Liberazione, tra cui Ramush Haradinaj, che hanno alimentato ulteriormente il malcontento serbo, mentre l’ICTY ha riconosciuto la responsabilità del governo di Belgrado nei crimini di guerra perpetrati in Kosovo contro la popolazione di etnia albanese (condannato sei funzionari alla reclusione).

Anche i serbi di Croazia hanno espresso la loro insoddisfazione per l’incapacità della Corte di considerare le vittime dell’Operazione Tempesta (Oluja) del 1995 e le stesse accuse sono state mosse dai familiari dei caduti di Vukovar, assediata dalle truppe serbe nel periodo tra agosto e novembre 1991 (87 giorni di combattimenti, stime non ufficiali quantificato le perdite croate nell’ordine della decina di migliaia, tra soldati e civili). Paradossalmente, come i serbi puntano il dito sulla presunta parzialità della Corte, lo stesso fanno i croati, convinti che il Tribunale abbia una preferenza per la versione raccontata dagli imputati della Serbia, non riconoscendo, quindi, l’aggressione di Belgrado ai danni del territorio croato.

Oltre a quanto già detto, il Tribunale non ha offerte risposte chiare su alcuni dei fatti più controversi del conflitto, compresa la possibile conoscenza da parte del governo serbo dello svolgersi dell’eccidio di Srebrenica, in quanto Slobodan Milosevic è venuto a mancare prima che il suo verdetto potesse essere presentato. Alcune vittime, per di più, sono state deluse dal riconoscimento di Srebrenica come unico caso di genocidio sul territorio bosniaco, mentre avrebbero voluto vedere i massacri perpetrati dalle truppe serbe in altre sei località della Bosnia nel 1992 essere considerati allo stesso modo. Il disappunto è ancor più vivo per il fallimento di stabilire un collegamento diretto tra le truppe serbe di Bosnia con la leadership di Belgrado, che resterà per sempre un punto irrisolto, assieme ai crimini commessi dall’Armata Jugoslava in Croazia orientale, essendo stato assolo il generale Momcilo Perisic.

Alla chiusura, il Tribunale verrà sostituito da un altro istituto, il Mechanism for International Crimes Tribunal, che gestirà i casi e gli appelli rimanenti, sempre locato all’Aia. Sua sarà la responsabilità per gli appelli presentati da Radovan Karadzic, Ratko Mladic ed il leader del partito radicale serbo, Vojislav Seselj, più la ripetizione del processo ai funzionari per la Sicurezza Nazionale, i serbi Franko Siimatovic e Jovica Stanisic, nonché l’onere di mantenere l’archivio della Corte Internazionale, contenente le investigazioni, le prove, i verdetti ed i documenti di rilievo di tutti i casi presentati dinnanzi al Tribunale. Il piano per i prossimi anni comprende un trasferimento dell’archivio nei territori della ex-Jugoslavia, ma, alla data odierna, solo Sarajevo si è dichiarata pronta ad ospitarlo.

Persistono, comunque, le incertezze sulla conduzione dei processi in loco, presso le corti nazionali. Purtroppo, non sussistono alternative a questa soluzione, come ha ricordato Brammerz, pur ammettendo che le ingerenze da parte della politica e l’endemica scarsità di risorse a cui sono sottoposte queste corti, rallentino o pregiudichino un risultato finale soddisfacente.

Come lui stesso ha concluso, per Balkan Insight:

“Ho avuto a che fare con la regione per gli scorsi 10 anni. Ho incontrato molti procuratori dall’incredibile coraggio e dall’inflessibile motivazione; spero che vi sia presto un supporto da parte della politica verso il loro operato in futuro”.

Guardandosi indietro, rimane una considerazione amara da avanzare: dopo 24 anni Bosnia, Serbia, Croazia e Kosovo non hanno ancora trovato una pace interna ed una via ad un rilancio economico e sociale che sia sostenibile, che dia speranza. Non hanno ancora chiuso il capitolo dei conflitti che li hanno scossi durante gli anni Novanta, lasciando spesso troppi punti di domanda e questioni insolute, a cui nessuno, ormai, potrà fornire una risposta.