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Balcani: 2018 cruciale

La Strategia dell’Unione Europea per l’integrazione dei Balcani Occidentali preparata dalla Commissione Europea, dovrebbe essere presentata il 6 febbraio 2018.
Nonostante le dichiazione del Presidente della Commissione Jean Claude Juncker che sembravano identificare solo la Serbia ed il Montenegro, in prima fila nel processo di ingresso nell’UE, come gli unici soggetti della Strategia, il programma dovrebbe riguardare anche gli altri paesi dei Balcani Occidentali, Albania, Bosnia, Kosovo e Macedonia.
La nuova Strategia avrà tra gli obiettivi la lotta alla corruzione, il rafforzamento dello stato di diritto, la stabilità generale della regione e la giustizia. La bozza della strategia contiene anche la conclusione di un accordo legalmente vincolante tra il governo di Belgrado e quello di Pristina da suggellarsi entro la fine del 2019.
Il documento è un passo fondamentale nel processo di avvicinamento dei paesi balcanici alla famiglia europea. Come ha commentato l’analista Srdan Cvijic, che si occupa delle relazioni esterne dell’Unione, è necessario che la Strategia tocchi cinque punti, che, a suo avviso, sono gli snodi centrali per ridare popolarità alle manovre di ingresso. Prima di tutto, il documento, puntualizza Cviijc, deve definire la trasparenza e la prevedibilità del processo; in secondo luogo, è importante che vi sia menzione dell’istituzione di meccanismi nuovi che monitorino lo stato dei progressi nei singoli paesi, della possibilità di rilasciare maggiori fondi a disposizioni per i Balcani Occidentali destinati alle infrastrutture, di un programma atto alla socializzazione delle elite politiche ed infine dell’integrazione dei cittadini dei paeesi coinvolti nell’area dell’Unione Europea attraverso differenti misure.
Il 2018 sarà un anno cruciale per le speranze di avvicinamento dei Balcani Occidentali all’Unione. Oltre alla summenzionata Strategia, il prossimo anno vedrà la Bulgaria come presidente di turno dell’UE, un paese che non ha mai nascosto la sua volontà di partecipare attivamente al processo di allargamento, tanto da fare di quest’ultimo una delle priorità della sua presidenza. E’ in questo contesto che la capitale Sofia ospiterà il 17 maggio 2018 un summit tra l’Unione ed i leader politici dei sei paesi dei Balcani Occidentali, un anticipo dell’appuntamento di Londra del 10 luglio, quinto incontro multilaterale del Processo di Berlino, l’ultimo previsto.
Entrambi gli episodi sono considerati dagli analisti come momenti rivelatori del futuro atteggiamento dell’Unione nei confronti dei sei paesi balcanici, soprattutto per verificare la propensione dell’Europa di adottare politiche piu’ aggressive per consentire l’accesso dei Balcani Occidentali, in controtendenza con un approccio maggiormente morbido e, generalmente, meno efficace. Tale variazione di rotta potrebbe rivelarsi decisiva per le nazioni che oggi risultano in ritardo rispetto alla maggioranza della regione, come Bosnia e Kosovo. Senza il supporto forte e continuo dell’Unione, il processo di integrazione potrebbe essere faticoso, dispendioso e complesso, spegnendo così gli entusiasmi nella popolazione bosniaca o kosovara. Tuttavia, benché vi siano segnali di incoraggiamento, la nuova presidenza del Consiglio d’Europa sarà austriaca: il nuovo governo, guidato dal giovanissimo Sebastian Kurz, sembra interessato ad occuparsi di stabilità interna, sicurezza dei confini e gestione dei flussi migratori, in parallelo con le trattative post-Brexit ed il varo del nuovo budget UE. Probabile, quindi, che non vi sia grande spazio per i Balcani Occidentali nell’agenda di Kurz. Un altro punto dolente sono le dichiarazioni di supporto di Strache, partner di coalizione nel governo austriaco, verso la Republika Sprka ed il suo presidente Milorad Dodik e la negazione da parte del Partito della Libertà di Strache dell’indipendenza del Kosovo.

Bosnia: Dodik in lista nera degli USA

Milorad Dodik, presidente dell’entità serba di Bosnia, la Republika Srpska, è stato incluso nella “lista nera” dal governo degli Stati Uniti, come riporta in un’intervista concessa al quotidiano di Sarajevo l’ambasciatrice americana Maureen Cormack.
La decisione è stata presa al vertica e risponde a dei criteri specifici che orientano la politica del gigante statunitense in Bosnia. La Cormack ha dichiarato:

“La politica americana in Bosnia è molto chiara. Noi supportiamo questo paese, la sua integrità territoriale, la Costituzione disciplinata negli Accordi di Dayton, il processo di integrazione della Bosnia all’interno dell’Unione Europea e se Dodik dovesse cominciare ad impegnarsi su progetti che facciano il bene dei cittadini bosniaci, come ho detto ripetutamente, noi siamo pronti a lavorare con ogni leader che condividono gli obiettivi di cui sopra. “
La decisione, ha aggiunto, non è contro i cittadini della RS o contro l’esistenza stessa dell’entità. L’ambasciatrice ha tenuto a precisare che il governo americano continua e continuerà a cooperare con le istituzioni serbo-bosniache, come dimostra il progetto di supporto all’economia Farma 2 o il programma USAID.
“Infatti mi preme sottolineare che è Dodik ad aver deciso quanto sta accadendo. Semplicemente, deve abbandonare la retorica nazionalista e secessionista, l’opposizione ferma e decisa al processo di integrazione della Bosnia nello scacchiere euro-atlantico e tutte quelle dichiarazioni che sembrano voler solamente rallentare lo sviluppo del paese.” ha concluso la Cormack.

Fonte: N1, Oslobodjenje

Serbia: aiuti finanziari per Srebrenica

In arrivo un aiuto finanziario da Belgrado per Srebrenica, concesso durante la visita nella capitale serba del sindaco della città Mladen Grujicic con il presidente Vucic.
I fondi sono rivolti a potenziali investitori serbi interessati a sviluppare la zona industriale di Potocari, specialmente per quanto riguarda la produzione di sedie.
Secondo fonti municipali, il valore delle infrastrutture già presenti si aggira attorno ad 850.000 euro, ai quali è necessario aggiungerne altri 150.000 per le operazioni di ristrutturazione e di rimessa in funzione. Il progetto, una volta a pieno regime, dovrebbe essere in grado di espandere i posti di lavoro da 70 previsti all’inizio delle operazioni di ricostruzione, a 300, sempre stando alle stime fornite dagli uffici del sindaco.
Gli spazi e le strutture erano di proprietà della Srebrenica Prevoz, acquistata dalla compagnia di Bjeljina Bobar durante il processo di privatizzazione, poi venduta alla slovena Neo Dom. A seguito delle compravendite, la produzione è cessata, mentre i macchinari sono stati ceduti a terzi, bloccando di fatto l’attività delle fabbriche, che ad oggi, sono ferme da 15 anni, nonostante continui proclami di un rilancio imminente.
Due anni, nel 2015, l’allora primo ministro Aleksandar Vucic, oggi come si sa presidente, promise di aiutare la municipalità di Srebrenica, preparando un piano di finanziamento di 5 millioni di euro, adesso in corso di attuazione.
Nell’ultimo biennio, 2 millioni dei 5 totali sono stati impiegati per sanare le finanze di Srebrenica mentre i rimanenti tre sono alla base di progetti di rilancio economico ed industriale dell’area.

Fonte: N1 – sgenzia di stampa

Bosnia&Serbia: confine senza controlli

Valico per l’ingresso in Serbia senza nessun controllo: Sasa Magazinovic, parlamentare del partito Social-Democratico nel parlamento nazionale della Bosnia ha voluto verificare quanto udito nei mesi scorsi. Così, il politico ha imboccato il collegamento stradale presso il ponte sul fiume Lim, nelle vicinanze di Rudo, cittadina collocata quasi al confine, scoprendo che da lì è possibile sconfinare nella vicina Serbia senza che vi sia alcun tipo di controllo al confine. E’ abbastanza possedere un fuoristrada o una vettura capace di attraversare una rete viaria poco asfaltata. Il parlamentare ha espresso la sua preoccupazione, soprattutto nel contesto della crisi migratoria, rimarcando come la sicurezza dei confini sia fondamentale. Al termine dell’esperimento, Magazinovic ha invertito la rotta, facendo ritorno nella sua Bosnia. Ovviamente indisturbato.

Fonte: N1 – agenzia di stampa

Kosovo: reazioni negative verso la Corte Speciale

Il parlamentare kosovaro Daut Haradinaj, della formazione politica Alleanza per il Futuro del Kosovo e fratello del primo ministro Ramush Haradinaj, nonché ex-combattente con l’Esercito di Liberazione del Kosovo, ha dichiarato il suo scetticismo nei confronti della nuova Corte Speciale dell’Aia che avrà giurisdizione sui crimini commessi durante il conflitto in Kosovo nel 1999.
Secondo Haradinaj, gli arresti che verranno ordinati dal Tribunale saranno fortemente contrastati dai combattenti dell’Esercito di Liberazione, che proteggerà i suoi membri dal dover sostenere un processo per i presunti illeciti di cui sono accusati. Tra le imputazioni, quella di omicidio, tortura, detenzione illegale, stupro e rapimento.
Il commento del parlamentare è stato registrato poco dopo il tentativo fallito del parlamento del Kosovo di passare una legge che proibisca alla Corte Speciale di perseguire coloro i quali hanno fatto parte dell’Esercito di Liberazione sia per i crimini commessi in tempo di guerra che per quelli del periodo successivo. La misura è stata affossata sia dal non raggiungimento del quorum all’interno dell’ufficio della presidenza del parlamento, sia a causa delle forti pressioni da Stati Uniti ed Unione Europea.
La protesta contro la nuova Corte è comunque sistemica, essendo quest’ultima condannata anche dal presidente Hashim Taci, che , mercoledì 27, ha commentato definendo il nuovo organo giudiziario “un’ingiustizia storica contro i kosovari albanesi”. Ai microfoni di Radio Free Europe, Taci ha poi espresso il suo disappunto per il non passaggio della proposta di legge, sottolineando come, piu’ che un tentativo di respingere le ingerenze internazionali, la volontà alle spalle dell’iniziativa era di permettere al Kosovo di avere la propria corte interna addetta ai crimini di guerra, in maniera non dissimile alle corti domestiche istituite in Serbia, Bosnia e Croazia.
“Anche oggi, adesso, considero la Corte Speciale un’ingiustizia storica, specialmente da quando il Tribunale per l’ex Jugoslavia è chiuso. La domanda quindi è, perchè qualcosa di speciale per il Kosovo? Siamo forse cittadini di seconda classe? Abbiamo attaccato un’altra nazione? Serbia? La Serbia ha occupato il Kosovo e la nostra è stata una guerra difensiva, per liberare il Kosovo e la sua gente.”
Nonostante le dichiarazioni, il presidente sosterrà la nuova Corte, per preservare i buoni rapporti con la Comunità Internazionale. Alla domanda postagli se fosse preoccupato di essere tra il gruppo di futuri imputati della Corte, Taci ha risposto:
“Sono orgoglioso dell’interno periodo in cui ho servito nell’Esercito di Liberazione, e sono convinto che la nostra guerra sia stata pura, corretta e legittima. Era l’unico modo per raggiungere la libertà e l’indipendenza e se accettare la Corte Speciale è il prezzo da pagare per questa libertà, ci assumeremo le nostre responsabilità, sia come cittadini che come leader istituzionali.”
L’atteggiamento prudente di Taci è giustificato dalle reazioni alla proposta di legge contro la Corte degli alleati internazionali del Kosovo. Tra tutte, spicca quella degli Stati Uniti, che tramite l’ambasciatore Greg Delawie, hanno puntualizzato come l’eventuale passaggio della legge avrebbe potuto compromettere il futuro come parte della famiglia europea del Kosovo e avuto una serie di implicazioni negative nelle relazioni tra la giovane repubblica ed il governo americano. L’ambasciatore, senza mezzi termini, ha definito la possibile approvazione dell’iniziativa, “una pugnalata alla schiena del Kosovo agli Stati Uniti”.

Fonte: BalkanInsight, BalkanEU

Bosnia: Azra Basic condannata a 14 anni di reclusione

Azra Basic, ex-membro dell’HVO durante la guerra di Bosnia, è stata condannata a 14 anni di reclusione dalla Corte Nazionale di Sarajevo. Era accusata di aver abusato di prigionieri di etnia serba nella località di Derventa, tra il 26 aprile ed il maggio 1992.
La Corte ha concluso che la Basic ha preso parte a torture sistematiche ed ha commesso almeno un omicidio, quello del serbo Blagoja Djuras. In aggiunta, la bosniaco-croata ha abusato di Mile Kuzmanovic, fatto accertato dalla trascrizione delle testimonianze dello stesso e da altri resoconti forniti da testimoni oculari. Le è stata anche riconosciuta la responsabilità per il trattamento inumano nei confronti di Boroe Petar Markovic, mentre la Basic si trovava a Polje, nel maggio 1992. Assolta, invece, da altri tre capi di imputazione in quanto, come riporta il presidente della Corte Sean Dikic, non è stato possibile raggiungere una decisione unanime sulla colpevolezza dell’imputata basandosi sulle evidenze a disposizione.
La sentenza è stata formulata tenendo conto della brutalità e delle conseguenze dei criminici commessi dalla combattente, alle quale, comunque, sono state riconosciute le attenuanti dovute a chi è alla prima condanna penale.
Azra Basic era arrivata negli Stati Uniti dopo il conflitto, occultando il suo coinvolgimento nelle operazioni militari sul territorio bosniaco.
Nata nel 1959, a Fiume, in Croazia, la Basic ha lavorato in tre campi di detenzione diversi a cavallo della primavera e dell’estate del 1992, tutti nei pressi del villaggio a maggioranza serba di Cardak. Inclusa nel registro degli accusati di crimini di guerra già nel 1993, era stata individuata solo nel 2004, mentre già risiedeva a Stanton, Kentucky. Una richiesta di estradizione formale era stata presentata agli USA dalla Bosnia nel 2007 alla quale gli Stati Uniti avevano risposto richiedendo maggiori informazioni riguardo alle accuse mosse contro la Basic, ottenute nell’Aprile 2010.
Nel 2011 era stata arrestata nello stato del Kentucky con l’accusa di frode all’immigrazione, a causa delle false informazioni dichiarate riguardo al suo passato. Nel 2016, a seguito di una lunga battaglia contro l’estradizione, la Basic è arrivata a Sarajevo, dove è stata presa in custodia dalla polizia locale.
Trattandosi di una condanna di primo grado, il verdetto è appellabile.

Fonte: BalkanInsight, BBC, Trial International, N1

Croazia&Serbia: il nazionalismo ed il futuro

Quando gli Stati Uniti d’America e l’Unione Europea hanno iniziato a chiamare i territori dell’ex-Jugoslavia con il termine di Balcani Occidentali nei primi anni 2000, una delle motivazioni era identificare una cesura tra il passato di conflitti e violenza ed un futuro pacifico.

Tuttavia, il 2017 si avvia ad una conclusione che pone l’accento sulla trasformazione incompleta dell’idenitità soprattutto di Croazia e Serbia, che, seppur abbiano compiuto dei passi avanti fondamentali, sembrano non voler rinunciare a ricorrere ad una certa intransigenza politica.

Per avere una controprova, si analizzino le reazioni a quanto concluso dall’ICTY, che giovedì ha celebrato l’imminente chiusura: la Corte ha chiaramente stabilito, nei suoi quasi venticinque anni di attività, i caratteri somatici del conflitto seguito alla dissoluzione della Jugoslavia, con attenzione particolare per i fatti che hanno interessato la Bosnia.

La ricostruzione ha puntualmente ricondotto le responsabilità dei governi di Zagabria e Belgrado del finanziamento e mantenimento alle forze armate nazionaliste attive sul terreno, ossia l’HVO e la VRS, le quali erano, chiaramente, appendici dei suddetti governi di cui perseguivano gli obiettivi. La presenza delle firme dei due presidenti, Tudjman e Milosevic, sugli accordi di Dayton, vicino ad Izetbegovic, confermano questo coinvolgimento diretto di Croazia e Serbia nella guerra di Bosnia, paese del quale entrambe desideravano una partizione (discussa in principio tra il 1992 ed il 1994), in guisa tale da soddisfare le mire delle rispettive leadership per una “Grande Serbia” o per una “Grande Croazia”.

Di questo passato complesso, dominato dall’etnonazionalismo, i due paesi devono rispondere in modo coerente. Al momento, nè il governo dell’HDZ, l’Unione Democratica Croata, nè l’amministrazione del presidente Vucic hanno, in alcun modo, mostrato la buona volontà di riconoscere i crimini commessi dai loro predecessori. In poche parole, a Zagabria ed a Belgrado non v’è alcun Willy Brandt pronto ad inginocchiarsi a Canossa (o nel caso specifico del cancelliere tedesco, al ghetto di Varsavia).

Anzi, al contrario, imperversano il revisionismo ed il negazionismo storico, mentre, dietro alle dichirazioni di circostanza, si nota la presenza delle stesse aspirazioni (o velleità) espansionistiche viste durante la guerra, malgrado l’ingresso della Croazia nella NATO (2009) e nell’Unione Europea e la promessa di un’entrata della Serbia (non membro NATO) nella famiglia europea entro il 2025

Difficilmente passa un giorno senza che, a turno, il presidente della Republika Srpska Milorad Dodik non minacci l’integrità territoriale bosniaca, subito seguito dalle dichirazioni sulle stesso tono del membro croato della presidenza tripartia della Bosnia Dragan Covic, che sogna una terza entità a maggioranza croata. E quest’ultimo, nei momenti concitati dopo il suicidio in diretta del generale Slobodan Praljak, ha rivelato la sua celata intenzione di mantenere la Bosnia fuori sia dall’Alleanza Atlantica che dall’UE, prima che gli venisse fatto notare come la sua retorica fosse un po’ troppo tagliente e pericolosa. Tuttavia i fatti rimangono: Croazia e Serbia non hanno mai smesso di considerare la Bosnia come una creazione temporanea, che tornerà a loro disposizione nel prossimo futuro.

I governi serbo e croato hanno più volte protestato riguardo ad un’ammissione di responsabilità nei confronti dei crimini passati, uguagliano il gesto ad una irreparabile umiliazione nazionale. Su questo aspetto v’è una logica: è più semplice scivolare verso un autoritarismo illiberale ed un corteggiamento nemmeno troppo nascosto di un rinnovato estremismo politico piuttosto che rivalutare il proprio trascorso con onestà. Ciò nondimeno, è proprio l’azione di distanziarsi dal passato che permetterà a Serbia e Croazia di ricostruirsi un’identità nazionale che prescinda dalle guerre di Tudjman e Milosevic. Invece della glorificazione delle loro figure, sarebbe più salutare a Zagabria e Belgrado, una celebrazione della sconfitta di quell’ideologia nazionalista delle “piccole patrie” che tanto orrore ha portato nei Balcani, finalmente restituendo alla Bosnia la sua dignità di stato, cessando di contribuire alla sua autodistruttiva autofagia.

Solo sconfessando ciò che è stato (e ci si auspica, mai sarà di nuovo), per Croazia e Serbia si aprirà una nuova pagina della loro storia.

 

Bosnia: i figli perduti dell’assedio – Balkan Insight – 22 dicembre 2017

L’articolo è pubblicato su Balkan Insight –

Non è stata effettuata la traduzione, per preservare l’integrità dell’intervento, che è bellissimo, per quanto devastante. Nel caso l’auture di questo articolo o altri rappresentanti del portale desiderino la rimozione, sarà mia cura di provvedere alla richiesta.

Ovviamente tutti i diritti, i complimenti, sono da rivolgere a:
Igor Spaic BIRN Sarajevo

Sarajevo Siege Mothers Remember Their Lost Children

In the year that Ratko Mladic was convicted of terrorising Sarajevo during the wartime siege, two mothers of young children who were killed by the shelling recall the horror they lived through, and explain how they survived.

 

 
Radislava Habul and Zlatka Imamovic in Sarajevo. Photo: Beate Simarud.

“Ah, there she is,” Radislava Habul’s eyes light up when she sees her friend, Zlatka Imamovic, walking down the hill in a park in central Sarajevo.

The two women share a long, close hug and chat for a bit.

Among the hundreds of names listed on a revolving pillar, the two women immediately find what they are looking for – the names of their sons, engraved on the Sarajevo Memorial for Children Killed During the Siege.

“We all know each other’s stories – the dates when our children were born, when this happened. We always understand each other the best,” Imamovic said.

Their sons, Alen and Mirza, are among the 11,541 civilian victims of the siege of Sarajevo, which lasted for 1,425 days from April 1992 to February 1996 – the longest siege of a European city in contemporary history. They were only six years old.

Their mothers, Habul and Imamovic, are now part of Sarajevo’s association of parents whose children were killed during the siege. Imamovic is a Muslim Bosniak, while Habul is an Orthodox Serb woman who declares herself to be a Bosnian.

Many of those responsible for the siege have been convicted by domestic and international courts, most recently Bosnian Serb military chief Ratko Mladic, who was sentenced to life imprisonment last month for masterminding a shelling and sniping campaign that targeted the city’s civilian inhabitants.

But despite this, the pain the two women feel remains the same – and everything around them reminds them of that pain.

Imamovic sometimes comes across the boys from her street who were born around the same time when her son was born – except that they are, now grown men.

“When I see those boys now, my heart tightens up. I can tell they also feel uncomfortable. They greet me, give me a hug, and then there is this silence,” Imamovic said.

“Then you start thinking to yourself – what would he look like today? What would he be like?”

She is also reminded of her loss in autumn, when the school year begins.

“It’s on that day, when you go to school for the first time when they are seven years old and you hold them by the hand – which I never experienced with my son. It is very difficult for me,” she said.

Habul listened to Imamovic carefully, nodding her head in silent approval.

“It is sorrow, a large wound on my heart. But you have to stand up and say ‘let’s keep going’. We cannot go back in time, but we can remain decent human beings,” she said.

The two women begin telling their stories.

‘It was such a beautiful spring’

 
Senad and Zlatka Imamovic, their son Mirza, and a family friend in the early 1990s. Photo: Beate Simarud.

“My boy’s name was Mirza,” Imamovic recalled with teary eyes.

“Everyone loved my Mirza in our street, he was the favourite kid. It was probably God’s will that he spread all of this love around in his short life,” she said.

When the war began, Imamovic lived in the family home with her son, husband and her in-laws in Podhrastovi, near the outskirts of Sarajevo and the separation line between the conflicting armies.

“We had a beautiful and happy child, a beautiful marriage, everything was great.”

Those who lived outside more urban areas had it a bit easier during the war than those living in apartments, Imamovic said, as she had a yard where she grew onions, green salad and potatoes.

It was the first day of spring, March 21, 1993, that would change her life forever.

The family gathered in front of the house just after eight o’clock that morning.

Imamovic and her mother-in-law were picking herbs in the yard, and her husband was preparing jerrycans to collect water. Her brother-in-law was also there. Imamovic’s father-in-law was joking around with Mirza in his lap.

“It was such a beautiful spring,” Imamovic remembered.

At one point, Imamovic and her mother in law went inside, and her husband went to the basement to get more jerrycans.

Then something happened outside.

“I felt a strong bang, shaking, I could not understand what was going on. Now when I think about that day, I have some darkness in front of my eyes, and a lot of dust,” Imamovic said.

She and her husband ran outside immediately, calling out for Mirza.

“I look through the dust, and…” Imamovic paused shortly, then broke down in tears.

The bodies of Mirza, her father-in-law and her brother-in-law were laying scattered in front of the house.

“I remember Senad [her husband] taking me to the house. I don’t remember what happened next, I fell unconscious,” she said.

Imamovic later woke up and saw the whole neighborhood had gathered, but soon she fainted again.

“All I saw was my husband carrying Mirza. His head was dangling down. Every night I see this image in front of my eyes when I go to sleep,” she said.

A piece of the shell’s shrapnel had hit Mirza in the neck.

Her father-in-law died on the spot, while her brother in law was wounded.

Many things remind Imamovic of Mirza. For example, she never eats bananas these days.

One day, not long after the war began and food ran short in the city, Mirza came up saying, “Mama, I would like to eat a banana.”

“What? How did you think of a banana?” she recalled asking him.

Mirza had seen a picture of a banana when they were outside that day.

“Now, after the war, I never eat bananas, because I didn’t have them to give to my child to fulfil his wish during the war. My child wanted a banana, but we didn’t have it.”

‘He is in the children’s department’

 
Radislava Habul’s son Alen. Photo: Beate Simarud.

Radislava Habul and her family lived in an apartment in the Alipasino neighborhood during the war. For them, tragedy struck on November 9, 1992.

Her daughter, Izela, 18 at the time, was finishing high school. Her son, Alen, was six.

Her husband Izet was also at home, healing from a heavy injury to his back.

There was no water or electricity, so Izela took jerrycans and went to collect some. When she came back, Habul built a fire and cooked the children macaroni.

“Water was very scarce, so it was like winning the lottery when you got some,” she said.

Nevertheless, little Alen was treated to a luxury that day – he got to bathe.

At about two o’clock, a neighborhood boy called Mirza (unrelated to Imamovic’s son) came to the Habuls’ door.

“He was 12 years old and he liked my Alen a lot. He came to my door and said, ‘Please let us go out for a while to get some air, there is no shooting,’” Habul remembered.

Alen, Izela and Mirza went outside.

“After about a half an hour, I saw a burning ball dropping over the building. I went to the balcony, and I saw people lying around,” she said.

They had left the house because it was a beautiful sunny day and there was little gunfire.

“I thought about jumping down from the balcony right then and there,” she said, her voice increasingly shaky.

Habul ran down and saw Izela laying there, with blood all over her.

“I began looking for Alen, and then I saw him and Mirza in front of our entrance – they were running towards the building when they were hit,” Habul continued, breaking down in tears.

Local boys, teenagers too young to join the army, were guarding neighborhoods and residential buildings at the time in most of Sarajevo’s streets at the time. Those in Habul’s neighborhood immediately mobilised.

“They put me in some car, Izela on one arm, Alen on the other. Izela was bleeding heavily, so one of them gave me tissues which I pressed against that fountain of blood on her back,” Habul remembered.

“They gave me water for Alen, but he had already bled out. When we arrived at the hospital, he was dead already. Izela still gave off some signs of life,” she explained.

Little Mirza was also at the hospital, heavily wounded.

The shell had killed and injured many others as well – Habul said there was a soldier who had just returned from the frontline, an old man who later died from his wounds, and another boy who was hit in the stomach by shrapnel.

At the hospital, alongside Sarajevo’s well-known doctor Abdulah Nakas, she was met by doctor Jasna Gutic, who oversaw Habul’s pregnancy when she had Alen.

“She just said, ‘Is this really our baby?’” Habul remembered.

The doctors did not tell Habul that Alen had died right away.

“All they said was, ‘We will fight for Izela,’” she said.

The doctors took the children to the surgery room, and gave Habul some shots to calm her down. When she later went to the operating room, she saw Izela and little Mirza hooked up to a machine.

“There were no lights, they worked under candlelight. This is when the doctor told me, we will know if Izela will survive after the next 72 hours,” she said.

Habul rarely left the hospital for 40 days, until Izela could come home. But until that moment, they did not have the heart to tell the girl that her brother had passed away.

“She always asked, ‘Where is Alen?’, and I would tell her…” Habul starts crying heavily, “he is in the children’s department.”

“When we finally took her home and told her – it was terrible”.

Life had changed completely. The hospital psychiatrist called Habul in and told her: “Now, when she is fighting for her life, she cannot see your sorrow. You must be brave!’”

“So I kept my sorrow in my heart,” she said.

‘We, thank God, have our other children’

 
Zlatka Imamovic prays for her son and the other children killed during the siege. Photo: Beate Simarud.

On the day Imamovic’s son Mirza died, before the tragedy happened, he and his father had a playful chat.

“Senad asked Mirza, ‘Do you want mama to give birth to a sister for you?’ Mirza said ‘Yes, I want a sister,’” Imamovic said.

A year later, Imamovic gave birth to a girl, Mirnesa, who is today nearly finished her engineering studies. She also has another daughter, who is going to forestry college.

“This is what brought me back into life, what is holding us, what is giving me the strength to fight on,” she said.

“In one moment I only live in my memories, while in another moment, they shake me up, as if they are saying, ‘Mother, we are here,’” she added.

Habul said one of the biggest reasons her daughter survived after being heavily wounded was love – from Almir Sabanovic, a boy who had a crush on and who kept visiting her while she was healing.

“He would come over every day, bringing jerrycans of water so I could bathe Izela,” Habul said.

She remembered how Almir once brought her a rose he had picked for her despite heavy shelling.

Almir and Izela have been now married for 12 years. They have a daughter – her name is Alena, after Alen.

Despite everything she went through, Izela completed her studies in English and French language at the local philosophy university, became a teacher, got a masters’ degree, became a university professor, and finished her PhD in linguistics three years ago.

“That is what life is!” Habul said.

Habul and Imamovic also know many parents who lost their only child, however.

“What must it be like for them? Waking up in the morning, alone,” Habul said.

“We, thank God, have our other children. My granddaughter brought me back into life, but there are those who will never see their grandchild. For them it is much worse,” she added.

‘You must fight injustice’

 
Radislava Habul recalls how she lost her child. Photo: Beate Simarud.

War is not all black and white, and many of Sarajevo’s Serbs and Croats stayed in the city during the siege, defending their homes together with the Bosniaks. The tight local community was key to their survival.

“I had neighbours who would bring whatever they could because we had nothing,” Habul said.

She recalled an old Croat woman, Mrs. Marija, who one day asked her priest for help. He gave her an apple and a kilogramme of sugar.

Sugar was a luxury – Habul said that at the time a kilogramme would cost about 100 Bosnian marks (50 euros) on the black market.

“She came over and said, ‘I can’t eat this, I brought this for Izela,’” she recalled.

“This was our neighbourhood! One that stayed how it was before the war, not poisoned by nationalism and atrocities,” she said.

“I know how much the Serbs and the Muslims in our neighbourhood protected each other. In my building, we all breathed with one soul,” she added.

She also remembered how some soldiers from the Marshal Tito barracks, Serbs serving the Yugoslav People’s Army, took off their uniforms when it all began and brought guns to Sarajevans so they could defend themselves.

“Not all Serbs are war criminals, and not all Bosniaks were good either. However, we know exactly who waged this war, who was killing us,” Habul said.

“They talk about reconciliation – yes, we want it. But first be a human about it, confess to what you did and ask for adequate punishment! Be honest in your remorse! Then we will forgive, but we will never forget,” she said.

“I would personally like to meet whoever did this to me, and if they had children, I would like to tell them that whatever they experienced with their child is what they took away from me,” Imamovic added.

Ratko Mladic was convicted in November of being responsible for terrorising the population of Sarajevo, among other things. He will appeal against his life sentence.

“He may be punished with life in prison, but that is nothing to him, compared with what he did to us all,” Habul said.

Both the women agreed that they have to speak about what happened to them so it does not keep happening to others.

“Unfortunately, however, it is happening right now with the children of Syria and the Rohingya,” Habul said.

She recently joined a demonstration in Sarajevo in support of the children who are suffering in the Syrian war.

“You must fight injustice, and not always think, ‘OK, this is not happening to me,’” she explained.

“Whoever does not have emotions for his fellow human being is not a human! If I can’t help, at least I will help with my words!”

Balkan Insight – originale

Bosnia: il sindaco di Sarajevo tratta per l’apertura di un Information Center

Il sindaco di Sarajevo, Abdul Shaka, ha incontrato ieri, a margine della cerimonia di chiusura dell’ICTY,  i giudici Carmel Agius e Theodore Meron, per definire i dettagli dell’apertura di un Information Center nella capitale bosniaca, dopo la firma di un memorandum d’intesa tra il Tribunale ed il comune di Sarajevo il 29 novembre 2016.

L’archivio, che sarà al centro dell’Information Center, sarà ospitato dal municipio della città ed avrà il compito di presentare alla popolazione la totalità dei documenti in possesso della Corte Internazionale per l’ex-Jugoslavia, in digitale.

Il sindaco Shaka ha rimarcato come:

“Il centro non sarà solo un guardiano passivo dell’archivio del Tribunale dell’Aia. Questa istituzione ricoprirà diverse funzioni: educative, di ricerca, archivistiche, museali. Avrà, quindi, un’importanza centrale per tutta la regione e per il processo di riconciliazione”.

L’inaugurazione è prevista per i primi mesi del 2018.

Fonte: Sarajevo Times, klix.ba

Bosnia: rinvio a giudizio per Milomir Davidovic

L’Ufficio del Procuratore della Corte della Bosnia Erzegovina ha rinviato a giudizio Milomir Davidovic, nato nel 1955, a Foca, per crimini di guerra e contro l’umanità ai danni della popolazione non serba.

Davidovic è accusato di essere stato coinvolto nelle efferatezze commesse dall’esercito della Republika Srpska tra il 3 ed il 7 luglio 1992, nel territorio del comune di Foca.

Era stato tratto in arresto nella sua città natale all’inizio di ottobre di quest’anno.

La città ha celebrato l’8 aprile i 25 anni dal giorno della formazione della brigata autoctona che partecipò ai massacri ed agli atti criminali (violenze sessuali, pestaggi, torture etc) durante il primo anno di guerra.

Fonte: N1, RadioFoca